La solitudine è un bene o un male?

L'EremitaCi sono tante ragioni per le quali un essere umano nel corso della sua vita può sperimentare la solitudine. Si può rimanere soli perché le persone vicine muoiono o se ne vanno, si può rimenare soli per incapacità di relazionarsi con l’altro o perché non si è in grado di soddisfarne le aspettative, si rimane soli per l’incapacità di stare al passo con la vita per rifiuto o paura della stessa. Si rimane soli perché lo stato sociale di un luogo, una nazione o di una particolare epoca storica portano a isolarsi per ragioni che a volte sembrano sfuggire e che porta l’uomo a sentirsi inadeguato, a non adattarsi.

Oppure si può rimanere soli per una scelta nata da un’esigenza interiore a prendersi del tempo per fare chiarezza su chi siamo. In questi casi la solitudine può essere una grande opportunità di crescere, evolvere, apprendere nuove modalità di vita, acquisire una nuova consapevolezza di sé. La solitudine che viene da una scelta personale e consapevole si trasforma 9n una grande opportunità.

La nostra scienza ci dice che l’essere umano è fondamentalmente un animale sociale e si completa attraverso il continuo confronto-scontro con l’altro. Effettivamente osservando in natura, molti animali che definiremmo evoluti vivono condizioni di branco, perché nel branco c’è la possibilità di fare fronte comune nel difendersi da un predatore più forte, o nel procurarsi il cibo, per gestire migrazioni e spostamenti determinati dalla ricerca di condizioni di vita più consone alla stagione e alla sopravvivenza della stessa specie. È la natura della esistenza ad essere così. La vita di alcuni animali da branco assomiglia molto a quella dell’essere umano poiché le leggi che regolano la vita di base sono simili, anche quando sembrano diverse. Ad esempio in una migrazione di un branco di lupi il capobranco si mette in testa, seguito da una parte di esemplari giovani e forti, poi seguono le femmine con i cuccioli che devono essere protetti poiché rappresentano il futuro e la sopravvivenza del branco, poi seguono i lupi più vecchi, lenti e indifesi, infine ci sono altri lupi giovani e forti che chiudono il corteo con il compito di proteggere le spalle alla parte più vulnerabile del branco. Un animale viene abbandonato a se stesso quando non ce la fa più o quando la sua difesa metterebbe in serio pericolo la sopravvivenza stessa del branco. Solo allora viene lascito a se stesso. Gli animali sociali sanno bene che la loro sopravvivenza è garantita da un mutuo soccorso e pensano come branco e non come singoli. È la legge della natura nelle sue verità quella che viene applicata, anche se solo in modo istintivo.

Ritengo che la condizione ideale della vita dell’essere umano fosse quella “tribale” dove i cacciatori cacciavano per tutta la tribù, dove le madri, oltre che i propri, accudivano anche tutti i giovani della comunità e dove gli anziani, nelle lunghe serate passate a chiacchierare attorno al fuoco si occupavano di istruire e insegnare la vita attraverso storie, miti e leggende che insegnavano verità fondamentali su cosa fosse il mistero della vita e della morte. Gli anziani attorno al fuoco raccontavano storie che insegnavano ad avere rispetto per tutto ciò che “vive”, anche quando la vita in questione era quella della preda che doveva loro garantire la sopravvivenza. I cacciatori guardando negli occhi la loro preda ferita chiedevano loro perdono, dicendo loro che il sacrificio che stavano per compiere era solo per garantire la sopravvivenza della tribù, all’interno di un ordine più grande che rispettava una sorta di equilibrio cosmico, dicendo loro che a loro volta anche l’uomo, un giorno, sarebbe morto per sfamare altri animali e che il loro corpo sarebbe tornato a nutrire la terra.

Anche lo sciamano, raccogliendo erbe che servivano a curare, si scusavano con lo spirito della pianta prima di reciderla dalla terra con il medesimo intento poiché sapevano che il segreto per l’armonia e la sopravvivenza della tribù era determinata proprio dalla capacità di rispettare l’equilibrio della natura, senza prendere nulla in più del necessario. L’uomo antico viveva in armonia con la natura come naturale manifestazione di un istinto simile a quello degli animali e gli anziani intorno al fuoco insegnavano ai giovani la grandezza e il “mistero dello Spirito” come provenienza di tutte le cose e dicevano che tutto, un giorno, sarebbe ritornato allo Spirito.

Il corpo sarebbe ritornato alla terra mentre l’anima al Cielo.

Oggi viviamo in un modo diverso, la scienza parla di evoluzione e quindi di una condizione migliore rispetto ai selvaggi che adoravano il fiume, il tuono, la foresta, il sole, la luna.

Oggi l’essere umano vive in una società più complessa, ha sviluppato il cervello a tal punto da aver compiuto enormi progressi scientifici e tecnologi, non c’è dubbio che sotto questo aspetto abbiamo acquisito enormi facoltà, ma al prezzo di sacrificare quell’intelligenza interiore che si esprimeva si come istinto di sopravvivenza, ma che era il punto di partenza per accedere a quel sapere profondo che portava allo sviluppo di sentimenti come, l’amore, la fratellanza, l’amicizia, l’empatia, la solidarietà; sentimenti che possono maturare solo attraverso l’interazione e il contatto con l’altro e che permettono di sentire che è nella condivisione che la vita assume una senso più compiuto.

La difficoltà sta nel fatto che la razionalità percepisce la realtà esterna come qualcosa di separato e di “altro da sé” e porta a ragionare in modo egoico: il mio corpo mi contiene e ciò che è esterno è altro. Mentre l’anima, come insegnavano gli uomini antichi, è qualcosa di universale che si esprime in un modo unico in ogni differente manifestazione di sé: vegetale, animale o umana che sia; e da ciò nasceva il profondo rispetto di ogni forma vivente come parte integrante di una realtà unica e più grande.

Per gli uomini antichi la solitudine era solo un’errata interpretazione della realtà, errore che oggi è alla base del mondo moderno e del suo “progresso”.

La solitudine è un bene o un male?; si chiede all’inizio di questo elaborato. La risposta è dipende. Se è il frutto di un’incapacità ad adattarsi alla società attuale e genera una fuga, sarà un male solo se porterà a una rinuncia alla socialità, ma se dovesse portare a una profonda riflessione sul senso della vita potrebbe trasformarsi un’opportunità di crescere. Se invece è il frutto di una scelta consapevole, poiché si desidera raccogliersi in se stessi per conoscersi più in profondità, allora è probabile che porti a quel luogo dentro di noi in cui si scopre di essere parte di una realtà più grande. Allora la solitudine sarà un passaggio che conduce l’essere umano a divenire un essere più completo. In questo caso la solitudine sarà l’inizio di un grande viaggio di autoconoscenza in un processo di liberazione dalla “dipendenza dall’altro” e in cui l’imparare a stare bene con se stessi è il premio che si troverà alla fine del cammino solitario. Stare con gli altri non sarà più solo frutto di un bisogno, ma sarà una scelta, un desiderio, una volontà di “condividere” con l’altro una serata, un’esperienza o una vita intera. Allora si avrà anche maggior saggezza nel gestire il dolore, inevitabile, che si prova nel “perdere” qualcuno.

Oggi la tecnologia si propone di sostituire il contatto con l’altro, e l’errata interpretazione della realtà porta a una paura di fondo che sembra accompagnare questa epoca dell’essere umano moderno. I “social” non possono sostituire il “sociale” poiché così come il corpo si nutre di cibo, così come la mente si nutre di conoscenza, così l’anima si nutre di empatia, sentimenti, di un sorriso, una carezza, cose che solo il contatto con l’altro o l’appartenenza a un “branco” (famiglia, società, nazione o umanità che sia) può dare.

In un bellissimo libro un biologo particolarmente illuminato comparava l’essere umano alla cellula di un organismo, ogni cellula è un’entità a se stante ma se si isola dall’organo di cui è parte, che a sua volta è parte di un apparato che è parte di una essere, allora quella cellula impazzisce, con conseguenze deleterie, oltre che per se stessa, anche per l’organismo di cui è parte.

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